Maturità

martedì 22 settembre 2015

Maturità...Sottomarca - parte 6


Mornin'...beh, ora la questione si fa calda: il ciccione, masticato da una chimica inderogabile e spinto da un macaco rissoso, sente la missione e intende portarla a casa a costo della sua pelle tirolese, ma sul suo cammino incontra ostacoli pieni di ruggine e rancore. Questo boccone potrebbe anche ingozzarvi. 
Assumete con cautela. 
E lontano dai pasti.






Da Maturità


Augusto Brentani sa di avere una dipendenza dalla masturbazione.
Sua moglie la definirebbe malsana, ma lei è un caso particolare, usa quel termine anche quando parla della salsa tartara aperta da tre giorni.
Le seghe di Augusto vanno aldilà dell’innocente sfogo e della pausa ricreativa, sono occasione per riflessioni profondissime e sconvolgenti, metafisica applicata alla grezza conservazione. A volte sono così impegnate che sfociano in allucinazioni che lo lasciano stordito a fissare il vuoto col fazzoletto in mano per qualche minuto.
Una volta si è chiuso in bagno per concentrarsi su quella manza imperiale della Sharon Stone, nel romanticismo garantito dal tepore della tazza del cesso e dall’essenza al gelsomino sparata a intervalli regolari dal diffusore sopra l’armadietto. Soddisfatto il bisogno, assorto per un po’ da riflessioni inderogabili sulla vita dopo la morte, Augusto è tornato senza aloni in soggiorno per riappropriarsi del suo posto di lavoratore e marito devoto di fianco alla moglie, che però non c’era più.
Al suo posto una letale Sharon accavallante e irrigabile si esibiva in pose circensi che non lasciavano dubbi sull’assenza di biancheria intima. Augusto non è mai andato così vicino all’infarto, e anche se sapeva che prima o poi sarebbe successo, i chili di troppo le venti sigarette i digestivi, mai avrebbe pensato di restarci proprio quando i suoi sogni più inconfessabili si erano avverati.
Poi Sharon – centotrenta battiti al minuto – è sparita.
Puf. Il battito cardiaco le illusioni le speranze le palle, tutto è caduto senza fare rumore.
Un bidone dell’umido in pantofole e vestaglia gli sorrideva perplesso dal divano.
Quando un ciccione strizzato in un costume tirolese si è buttato dentro al bar Augusto non ha sorriso, non ha alzato gli occhi al cielo, non ha cercato uno sguardo di intesa con gli impassibili pokeristi del tavolo di fianco.
Ha sudato freddo. Un pensiero gli ha fatto cambiare posizione sulla sedia.
Che avesse fatto qualche sgarro a qualche ragazza dell’Oktoberfest su cui aveva fantasticato ieri pomeriggio? Una addirittura gli era apparsa a cena mentre assumeva la triste insalata impostagli dalla moglie, una bionda tutta tette e merletti con i contorni ben definiti dei desideri repressi, seduta di fianco a lui si sporgeva e gli infliggeva spietate visuali di una scollatura chilometrica.
Il rischio che un tirolese, reduce dall’orgia di Monaco e in preda a uno schizzo di gelosia etilica, entrasse nel bar dove lui beve tutte le sere un paio di Averna era tangibile.
Il tirolese inciampa sullo zerbino, bestemmia in italiano senza accento, lancia occhiate intorno forse per cogliere la malizia sui sorrisi dei clienti. In risposta solo espressioni prese in prestito dalle sagome dei poligoni di tiro. Unico movimento registrabile la goccia di sudore sulla tempia sinistra di Augusto, che sta facendo una smorfia assurda nel tentativo di costringerla a restare lì, cercando nel frattempo di scorgere un piglio vendicativo tra gli svariati doppi menti del cinghiale in calzettoni.
Il tirolese sfiora con una mano la coscia destra. Allunga qualcosa che somiglia a un collo oltre il bancone e incastra con gli occhi il barista – attore consumato che si aggrappa al gobbo. Il tizio, assorto nella pulizia di un calice scintillante con la lingua fuori mezzo metro per simulare lo sforzo, si sente in trappola e prova a buttare giù l’imitazione di un sorriso.
-un ananas, per favore
Il re della cantina piega lo straccio con lentezza cinematografica, tira un sospiro che vibra delle delusioni di un’esistenza intera, prende un bicchiere pulito.
Trenta secondi dopo appoggia quello che chiaramente è succo d’ ananas sul bancone, davanti agli occhi dilatati del tirolese, acido e stupore. Rimangono così forse un minuto, il tirolese e il re, cullati dai colpi di tosse densi di significato del poker. Espressioni di una società in conflitto da secoli, patrizi e plebei, aristocratici e borghesi, il barista che vuole chiudere e l’alcolizzato.
Le sagome forse percepiscono la tensione dello scontro, ma non possono sapere l’ammontare della posta in palio.
Uno fissa l’altro, l’altro fissa il bicchiere. L’amaro di Augusto fa un risucchio, ma il tirolese è troppo preso dalla tradizione e dai vecchi valori di una volta per accorgersene.
-dov’è l’ananas
-quello è succo d’ ananas, se non ci credi puoi assaggiare
-ti sembra che voglia assaggiare il tuo merdosissimo succo?
-non fa così schifo…è di marca
-ma io ti ho chiesto un ananas
-un ananas
-si, stupido pezzo di merda, un fottuto ananas
-non ce l’ho un ananas, calma le parole o levati dai coglioni
L’amaro di Augusto ritorna nel bicchiere con l’aggiunta di saliva.
Il poker non è mai stato giocato così in silenzio neanche nei poligoni di tiro per sordomuti.
-e ti sembra normale
-cosa
-ti sembra normale non avere un ananas
-beh
-no dico, in quale paese civilizzato ad un onesto cittadino non viene permesso di acquistare un ananas
-beh
-a me pare un sopruso un ingiustizia una grave carenza di servizio
-beh
-dillo un'altra volta
-cosa
-beh
-non mi piace il tuo tono
-a me non piace il modo in cui gestisci il tuo bar, se così si può definire
-sto chiudendo, se gentilmente
-gentilmente puoi andare a fare in culo
Le sagome si stropicciano un po’ sui posti. Il fruscio delle carte aumenta d’intensità quasi a voler censurare l’alterco con perbenismo vittoriano.
-probabilmente ho sbagliato io, venire qui in questa covo di depressione e morte a chiedere umilmente di essere servito al pari di quei bavosi relitti che giocano a poker, o meglio, ci giocherebbero se le loro mani non tremassero così tanto da non riuscire a reggersi l’uccello, pardon, quello che ancora ne resta
Bavosi relitti.
No, cazzo.
Onesti pensionati che pagano le tasse e mantengono mogli figli e nipoti, magari un po’ acciaccati, ma chi non lo sarebbe dopo quarant’anni di fabbrica. Un briciolo di rispetto per coloro che mandano avanti il paese accollandosi i figli tossici, si arrampicano per i parchi mandando giù gli sguardi di compassione di quattro stronzi che fanno jogging con le calzemaglie viola, tirano la sera stuprando il lobo temporale sottoponendosi a quiz condotti da faccioni tanoressici e finalmente, quando sono quasi certi di avere segnato un altro giorno sul calendario, vanno al bar a concedersi un poker con gli amici superstiti, ricordando i tempi in cui i tedeschi ti lanciavano le granate nel culo, ma le ragazze mica te la tiravano dietro con la fionda, anzi, dieci appuntamenti e il bacio della buonanotte, forse, e quante seghe ci facevamo ah ah – ma quel fottuto crucco se lo incontrassi per strada, ah.
L’ unica cosa che vogliono è essere ignorati da chi è giovane stronzo e ingrato.
No.
Si presenta un ciccione che con tutta probabilità scopa meno di loro e li insulta nel loro bar, il bar dove non devono aprire bocca per ordinare, il bar dove l’atmosfera è pregna di quella che da un momento all’ altro potrebbe essere l’ultima sigaretta.
Ma che cazzo.
Le sagome si scrollano il cemento di dosso e tirano indietro le sedie senza alzarle, gargoyles che si svegliano da incantesimi medievali. Lenti e inesorabili sono i servitori della patria, quando attaccano il nemico invasore con l’intento più vasto e inconfessabile di eliminare una generazione. Compatti e partigiani nell’incedere verso il tirolese, nella gola un colpo di tosse definitivo e in mano le carte che nessuno andrà mai a vedere, nella mente la realizzazione del sogno di ripetere la grande partita, in casa e senza spazzolini equivoci al fianco.
La mano austro-ungarica del vile invasore striscia automatica sulla coscia destra.
Augusto pensa che forse non è il solo ad uccidersi di seghe lì dentro.
Nel suo Averna c’è troppo ghiaccio.

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