Maturità

venerdì 12 febbraio 2016

Maturità...McPollastre parte quinta

Abbiamo lasciato il nostro prode Carlo nell'impresa di respingere l'attacco d'una pantera incazzosa.
Ecco come se la cava. 
Pulp!



È strano il primo pensiero quando apri gli occhi e ogni singola fibra del tuo corpo vorrebbe denunciarti per stupro. La stanza sarebbe perfetta per un sequestro di persona da poliziesco belga. La scelta è andata in netto favore della convenienza, a discapito di stile e suspence che pure sarebbero stati graditi. Almeno qualcosa di simile a delle manette.
Carlo cerca di lanciare uno sguardo di sufficienza agli strati di scotch che fanno sembrare il suo braccio uno zampone. Chi l’ha legato deve provare qualche specie di risentimento verso di lui.
Può sentire il sangue che stagna nelle vene. Metà della sua faccia esiste, l ‘altra semplicemente non è pervenuta. L’occhio destro non si apre. Orgasmo alieno. Deglutisce un paio di volte e la mascella lo supplica. Pavimento. Peso insostenibile tra le gambe. Orgasmo alieno pavimento e capelli biondi. Spera che Fiordiloto sia viva. Spera che sia stata lei a legarlo. Magari ha abusato di lui ed è andata a prendere le sigarette. Ne sarebbe lusingato.
Le perdonerebbe i modi bruschi e la sistemazione superficiale.
Ti aspetti di vedere caviglie sottili e polpacci abbronzati, lasci vagare la mente su certe lascive chiacchere nella stanza anonima di uno squallido motel.
I pensieri ancora si fanno cullare da dolci morbidi praterie quando la porta si apre – non cogli subito lo sviluppo delle vicende.
Quello che vedi sono sandali numero cinquantadue, calza bianca impeccabile e polpaccio scottato dal sole spagnolo. Alzi lo sguardo sperando di sbagliare.
Il tenero maritino della pantera viola deve aver provato quella faccia per tutto il tempo in cui Carlo è rimasto svenuto. Il risultato è talmente plastico e inverosimile, Gary Coleman che vuole fare l’incazzato, che Carlo gli sputa una risata in faccia.
Cinquanta chili di mano rubata al tornio si abbattono sul suo sterno e gli fanno comprendere tutta l’ironia del momento. Sandalo attende docile che Carlo riprenda fiato, poi comincia il suo terzo grado da sequestratore di persona nei giorni festivi. Parla italiano ma è chiaramente un crucco, ha l’accento tagliato da crauti e birra chiara a colazione. Carlo potrebbe anche sorvolare, se non fosse per quella vocetta da quindicenne sull’orlo di una crisi premestruale. Si morde le labbra ma probabilmente tradisce una smorfia, un pugno teutonico gli affonda tra le costole.
Carlo si vomita addosso. Sandalo osserva con disgusto il mosto violaceo sulla sua camicia. Vuole sapere che cosa ha fatto a sua moglie. Posta così la questione, la vittima sembrerebbe la pantera ninfomane dagli artigli viola. Carlo gli fa notare che è stata lei ad aggredirlo. Altro pugno nei reni. L’unico crucco che difende l’onore della sua donna come un picciotto negli anni ‘30 alloggia qui, nella stanza sailcazzo dell’hotel bucodimerda. Carlo non riesce più ad articolare una frase, stomaco reni e fegato sono un miscuglio informe, lui stesso è un pasticcio di carne fumante che aspetta di essere sciolto dalla grezza saliva teutonica. Colpi da qualche parte, forse dal bagno.
Sulla faccia di Sandalo la rabbia caricaturale lascia il posto alla paura, genuina. Le calze fanno due passi dentro i sandali, ma l’incedere non è spavaldo come prima. Sandalo schiude appena la porta, con la faccia da artificiere. Welcome to the jungle. Qualcosa di simile a una pantera incazzata come una biscia si avventa su Sandalo. È legata a una sedia come un quarto di bue, lancia urla sconnesse e sputa sangue e saliva, ma riesce nella mirabile impresa di stendere un quintale di germanico onore offeso. Sandalo si rialza bestemmiando con quella sua voce mestruata e roca assieme – a Carlo ricorda la sua prof di tedesco al liceo quando le tiravano le palle di carta bagnata dentro la camicetta. Visti così, lui che si rialza senza fiato e cerca di sbattere contro il muro la sua tenera metà costretta alla sedia da svariati metri di scotch, potresti scambiarli per due irreprensibili sposini che sperimentano con lieve imbarazzo una trasgressiva luna di miele. Sandalo chiede quindi collaborazione tramite un montante alla mascella.
La ninfopantera tace. Il suo sguardo più bovino che felino incrocia quello tumefatto di Carlo.
Carlo – appeso al letto come quei maiali che la nostra ninfopantera macellava insieme al padre, nelle lunghe notti di metà mese in una qualche modesta ma curata fattoria della Repubblica Democratica Tedesca, aspettando invano le vacche grasse per l’acquisto di una Trabant color malva, le vasche a Berlino Est e un concerto dei Pink Floyd. Carlo, Meine liebe, che sicuramente non sfigura davanti ai wüsterl di Francoforte, grossi ricurvi e lisci, che tanto le piaceva leccare e fare scivolare per metà in bocca davanti alla faccia sgomenta del cuginetto, e poi guardarlo scappare in bagno e stare fuori dalla porta con le orecchie tese e le dita un po’ umide, segretamente orgogliosa di farlo esplodere tra quei gemiti, eccitarsi quando all’odore della pelle di maiale si mischiava quello aspro delle sue pareti interne.





-Devi scopare mia moglie.
Sandalo è irrimediabilmente secco, asciutto, teutonico.
-Cvarda come l’hai ridotta, non ho mai fisto niente del genere, cvardala…è una pestia!
Cosa credi, che non si sia mai scopata nessun’altro? Mia moglie è un po’ puttana, ok, ma chi non lo è. Andiamo in facanza, lei si scopa un cameriere, io befo qualche birra al bar e gioco a carte, non succede nulla. Ma non l’afefo mai vista così…spafare, urlare, perdere il controllo come una cagna in calore! Scopala, sbattila fino a farle perdere i sensi, non mi importa…falle quello che vuoi, ma soddisvala. Foglio che torni come prima, un po’ troia va bene, non una morta di cazzo.
Adesso la slego, ok? La libero e tu te ne starai lì buono…a varti scopare come un liceale che non ha mai fisto una tetta, ok?
La ninfopantera guarda Carlo, e i suoi occhi si sciolgono, le labbra sono attaccate ad uno stimolatore, i suoi menti sudati e bruciati dall’ingrato sole catalano ballano, si staccano dalla faccia, colano giù fino al pavimento, sopraffatti da un’eccitazione umanamente incomprensibile.
Carlo rimanda indietro un conato, la smorfia che fa non è amore
passione o istinto animale, ma alla pantera poco importa. Lo scotch va via veloce, solo
qualche striscia tra la bestia letale e l’inerme preda, tra l’assalto di un possente felino in via di estinzione e la morte quasi certa dell’animale più debole. Darwin, no? La legge del più forte, del più stupido, del più arrapato. Non sei consenziente, cause, tribunali e iniezioni letali? Dimentica quella che studi sui libri, quella che rispetti, quella che invochi appeso ai titoli del tg, dimentica la legge. Se lo vuoi stai per sanguinare, è solo il prezzo da pagare. Ma la ninfopantera non sa nulla di risultati scontati, selezione naturale, supremazia della razza. Ha le braccia libere.
Le fughe tra le palme non sono più un ricordo. Colpisce il marito una sola volta, sull’ultima vertebra del collo, una gomitata di rito, di frustrazione. Centodieci chili di salute economica teutonica, incluse le corna, crollano a terra con un soave lamento da ragazzina persa nel trip del principe azzurro.
La pantera più arrapata di sempre spicca il salto della disperazione e dell’amore eterno.
Come ogni passione inestinguibile, anche la sua deve superare un ostacolo.
Il suo è ben interpretato dal mezzo metro di nastro adesivo resistente alle alte temperature che le incolla le caviglie alla sedia. Una volta maestosa nella sua grazia felina, abbandona la scena così, ottusa come una scrofa, sullo spigolo del letto. L’occipite temporale destro le si apre come un rubinetto. Carlo non ha più dubbi sull’attitudine selvatica. Il sangue che gli schizza sul polpaccio è bollente. Nell’aria solo una vaga promessa di notti infuocate.
Resta a guardare la fronte dell’ex pantera espellere le ultime gocce, il sangue che si allarga a ventaglio sotto il collo smisurato, gli artigli che grattano senza un comando dal cervello.
Sandalo, svenuto e senza onore. Dall’ematoma sul collo saresti quasi disposto a credere, che era sinceramente offeso e forse ci sperava, in questa chiavata riparatoria a danno di terzi.
Non è all’ipocrisia di un matrimonio che pensi, non quando cerchi di mordere lo scotch che ti strozza i polsi, non quando i denti tagliano l’aria a un millimetro esatto dalla tua trappola. Poi bussano alla porta. Tu speri siano dei tossici che cercano di tirare fuori l’ultima dose del giorno dal cilindro, ma non disdegneresti neanche l’Interpol che vuole sgamare sul fatto il serial killer delle coppie. Un coltello alla gola, un paio di manette ai polsi, qualsiasi colpo di teatro che faccia sparire i due manzi che sguazzano nel sangue ai tuoi piedi e lo scotch che ti inchioda sul letto, agnello sacrificale graziato dall’ironia malsana degli dei.
La porta si apre. In quel momento ti tornano in mente parole rimosse, mai ascoltate.
È un tuo antenato che ti parla dal divano, un pomeriggio torrido di luglio post-maturità, mutande da età napoleonica e benda sull’occhio. Tu lasci che sia l’ictus a parlare, presente più o meno come le sagome di cartone fuori dal multisala, e così ti sfuggono
le grandi
lezioni.
Nella vita non sempre ottieni ciò che vuoi.
No, aspetta, l’ha detto davvero?
Tira più un pelo di un carro di buoi?
Grasse risate, gioia per l’intraprendenza di chi sembra che ci stia per lasciare, e invece è ancora lì a cogliere la realtà nei suoi aspetti più crudi.
Ma ti sfugge la perla di saggezza. Forse avresti dovuto fare almeno una guerra, un conflitto anche banale, una rissa in un bar. Forse avresti una vaga idea di quello che sta entrando dalla porta.
Ma non ti serve la leva obbligatoria per riconoscere la più grossa donna delle pulizie della Catalogna, ai primi posti anche in Europa. Carlo non ha ancora perso la poesia, nemmeno dopo lo stupro che l’ha appena sfiorato, e gli sembra che il cielo sia entrato
nella stanza. Questo perché la divisa della donna è di un gradevolissimo azzurro pallido, e le dimensioni sono quelle di una tenda di otto posti. Non penseresti mai di vedere da vicino il frutto dell’accoppiamento tra un pilone samoano e un bisonte, e quando te lo trovi davanti, che annusa l’aria strizzata nella sua uniforme senza macchie, ti sfugge un unico, lungo, rassegnato lamento.
Il bisonte caduto dal cielo lotta un po’ con lo stipite, rilascia soavi grugniti, riesce infine
ad insinuarsi nella stanza.
Abbraccia con uno sguardo Sandalo la pantera il sangue. 
Carlo.
Sputa sull’etica professionale e
balza lentissima sul letto, un paio d’assi esplodono.
Si sistema sopra Carlo, leggiadra e letale, lo sguardo che non lascia dubbi sul significato dell’espressione -rifare il letto. Forse è quel filo di saliva che le cola sul naso e poi torna su, e ancora giù, bungee jumping da vomito certo. Forse Carlo sente per la prima volta il pressing dell’istinto di sopravvivenza. Non si tratta di mangiare vermi e scorpioni, ma della ben più nobile impresa di salvare il tuo culo dalla carica di un bisonte lanciato sulla prateria nella stagione degli amori - colpo di reni e testata nel centro perfetto della fronte. Al bisonte si incrociano gli occhi. Rantoli dal fondo dello stomaco. Perdita dei sensi graduale. Carlo chiude gli occhi. Centoquarantasei chili di amore non corrisposto si abbattono sull’umile letto matrimoniale.
I polmoni diventano noci. Carlo sa di avere poca autonomia, sepolto sotto quell’ammasso di grasso e sudore. Il bisonte denota estrema cura per le unghie, lunghe venti centimetri e coperte da un bugiardo smalto rosa. Carlo le usa per tagliare lo scotch. Sarebbe cosa buona e giusta tornare da una vacanza con un briciolo di dignità, quindi è più saggio risparmiare i dettagli sui patetici tentativi di liberarti dall’abbraccio troppo entusiasta del bisonte, un paio d’ore in cui mangi sudore e provi a scivolare sotto due enormi sacche di sabbia che si atteggiano a tette.
Carlo esce per strada, un vicolo del porto che non fa nulla per nascondere la sua nobile decadenza, e la prima cosa che nota è una luce intensa che non viene né dai lampioni né dalle insegne. Dalla sua tasca. Estrae l’iPhone con il terrore che gli esploda in mano. Deve chiudere gli occhi. Una vagina rosso fuoco brucia migliaia di watt sullo schermo. Carlo distoglie lo sguardo e vede macchie di luce tutto intorno. Sta guardando un’eclissi vaginale. Barcolla per un po’ in mezzo al vicolo, nessuno bada a lui, è solo un altro deluso che ha deciso di lasciare il fegato al porto. Rimette l’iPhone, che adesso scotta, al sicuro nella tasca dei jeans. Cammina fino a un bar tristissimo, attento a non incrociare lo sguardo di nessuno. Prende una birra e si siede sull’unico sgabello fuori. Si brucia i polpastrelli, ma riesce a tenere premuto il dito sull’icona della vagina. Le altre icone vibrano. La vagina sparisce. Carlo fa un pensiero strano.









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