Maturità

domenica 14 febbraio 2016

San Valentino duemilasedici

Solo ciondolo per l'avvinghiate vie del centro,
gomiti miei vien l'ora di baciarsi!
Su di noi rovescio dolce s'abbatte, fiato funambolo,
malavoglia di tirar sospiro!

Sulla strada d'Amerigo casco spaesato, ma
non tirava vento sul mio balcone?
Eppur il cappotto mio saldo al fianco,
avanzo d'armatura coperto.

Ma ecco, ogni panchina è già presa,
divelte lingue per scacciar maligno silenzio,
crogiolo di promesse al feltro s'ode sullo sfondo,
dimenticavo, su tal spiaggia salivante son molesto!
Tolgo l'occhio al passaggio, fossi mai
d'avido sopracciglio tacciato!
Su quel ferro gocciolante schiocca il sole,
quando dal trespo cadono quattr'occhi:

che fai, forse indugi su quel manzo?
ma che dici, se per le tue papille questa mia laringe gratta!
ah è così, dunque ridi dell'agro mio limone?
ecchè favelli? Infine dolce venne, invero, il respiro…

Scoppiarono gli assi, lo giuro!
Su questa mia fronte stupefatta giuro,
gli amanti si fecero gonfi e torvi,
come gli scorpioni al punger le morbide carni d'un coniglio.

Sospinto dall'acida brezza m'accascio dal Chirurgo.
Lievi polsi fremono al prezzo d'un sol biglietto,
sul triclinio arcigno si masturba un antiquario,
piangon le puttane pei lampioni spenti.

Ma perché colla poesia vado sporcando
codesto bestiale sbraco? E sia, m'accquatto,
guardinga una coppietta s'arrangia per godere,
rischiose fessure colme d'avventurose dita!

Infiammo tosto il tabacco, conscio,
non v'è piacere più fine di quello che nuoce.
Ed ecco la pulzella stringer per le palle il suo tomo,
ecco montar alle stelle l'immortal desio!

Ma no, quello sbotta, e colle mani scaccia,
della tresca se ne infischia e punta il muso,
chissà quali verghe impugnasti colle sozze dita!
ma che dici amor mio, l'aurora mi colse digiuna!

Salto in piedi e lustro l'occhio,
attorno alla pugna s'è fatto un crocicchio,
chi il giovane fellone spinge al dovere,
chi dell'offesa pulzella mastica il cuore.

Ma che succede, Rimini, tu fosti
sì ridente villaggio, taverna rombante,
quando ti facesti tana di serpi,
dell'amor schifato nella piazza dileggio?

Vien per me l'ora di gustar sommo silenzio,
lontano dai guai e dalle palpitani budella,
oh dio dei perdenti sempre rubicondi,
versa nella mia suola d'allegria un fusto.

Ed eccomi quindi all'ombra d'Augusto,
ch'almeno qui possa far della brama tormento,
e d'uno scomodo santo ridicolo sbuffo sul mento,
d'ogni fiato un verso, d'ogni labbro cemento!

Fusa la tremante schiena nel marmo,
m'alzo il bavero e canto, marinaio,
la mia sirena tra bollenti flutti dispersa,
che ragione avrei d'esser desto, se lei…

Botto, scanto, dannato mio mondo!
Pietra di lacrime unta, l'erba grida -sciagura!
Sbatte l'unghie Cleopatra, dietro s'affanna Antonio,
lacere vesti strillano colpa, Roma tradita, giorno funesto!

Pare che pel mio cuore stanco non vi sia pace,
ubriaco del pianto d'un mondo a metà,
Amore, – intono, – non v'è scampo,
un giorno lungo una vita, t'ho voluto
e t'avrò.






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